Avevamo programmato tutto o quasi tutto già da tempo, era rimasto fuori solo qualche dettaglio da decidere il giorno stesso della partenza: se utilizzare le biciclette o procedere a piedi.
Ci saremmo dovuti svegliare presto per recarci alla riserva naturale della Maremma, ma poi la gita saltò perché la sera prima avevamo fatto troppo tardi, essendoci intrattenuti a lungo con degli amici di vecchia data che non vedevamo da tempo e che tra l’altro, trasferitesi all’estero ormai da anni, erano in vacanza non molto lontano da dove ci trovavamo noi in villeggiatura.
Sicché, decidemmo di rinviarla, ma non di molto, solo di un giorno, per evitare l’affluenza del weekend.
Lì, alla riserva, l’organizzazione è un po’ ambigua, a mio parere, ma l’unica cosa certa è che il numero di parcheggi è fisso e regolamentato da una sbarra all’ingresso.
Nostro primo obiettivo era arrivare in tempo per accedervi, altrimenti al nostro percorso, a piedi o in bicicletta, si sarebbero dovuti aggiungere 8 km in più all’andata ed altrettanti al ritorno, visto che l’altro parcheggio più vicino si trovava al centro di Alberese.
Fortunatamente lungo la strada dei segnalatori indicano il numero di posti liberi: al nostro passaggio era segnato 38. Ottimo, visto che sul lungo rettilineo finale non si vedevano vetture né davanti né dietro di noi.
Alle 9.30 riusciamo a varcare la sbarra d’ingresso.
Confermando la decisione di portare con noi le biciclette, mi perseguitavano alcune preoccupazioni cui, ahimè, non competeva a me trovare una diretta soluzione: Maria aveva imparato da poco ad andare senza rotelle e questa per lei era la prima gita vera e propria in bicicletta; ma ciò che mi preoccupava maggiormente era l’inadeguatezza del suo mezzo rispetto al percorso d’affrontare.
Concordammo tutti e tre di procedere con l’avventura, e che allora abbia inizio!

Dal canto mio, ero preparato ad ogni eventuale imprevisto probabile: kit di chiavi inglesi per esigenze meccaniche, camere d’aria sostitutive per scongiurare la foratura e per qualsiasi altra evenienza ero disposto anche all’abbandono provvisorio della bicicletta per procedere a piedi.
Stavolta mi ero superato sia per l’abbigliamento sia per l’allestimento dello zaino e del mezzo. Per andare in bici indossavo gli scarpini con l’attacco rapido dei pedali, ma visto che nell’eventualità di dover procedere a piedi sarebbero risultati scomodi, trovai un posticino ai lati esterni dello zaino anche alle mie fedelissime scarpe da trekking; quanto alla bicicletta, avevo predisposto, a dire il vero già da tempo, un piccolo porta pacchi che all’occorrenza poteva diventare posto per un passeggero.
Mia moglie non era da meno: mi seguiva per lo stesso intento comune con zuccheri, carboidrati e scorta d’acqua senza precedenti.
Il sentiero A7 di 6 km è tutto completamente al sole e risulta pianeggiante, con alternanza di tratti sabbiosi e tratti ciottolosi. Un gioco da ragazzi per me e per la mia bicicletta e probabilmente anche per mia moglie, ma non per la piccola alle prime armi!
I primissimi metri di iniziazione tra la pineta rada e il fondo del sentiero pressoché sabbioso mi fecero capire che, seppur con il comprensibile timore dell’inesperienza, aveva grinta da vendere.
Usciti dalla pineta, il sentiero si trasforma in strada sterrata e si eleva di qualche metro sul livello del mare.
Il paesaggio, ormai apertosi davanti ai nostri occhi, è straordinario. La linea della strada lo divide nettamente come una lama in due parti lasciando da un lato il mare e l’isola del Giglio in lontananza, e dall’altro la Maremma, una distesa di bassa vegetazione mediterranea interrotta ogni tanto da qualche pino o da qualche piccolo promontorio.
Proseguendo su questa linea di confine tra due mondi apparentemente indipendenti, il mare e la terra, si arriva ad un ponticello nei pressi di un altrettanto piccolo edificio, il Casello idraulico. Qui, oltrepassato il ponticello, si palesa l’indissolubile punto di unione di quei due mondi: la foce dell’Ombrone.
Mi distaccai dalle ragazze e proseguii in perlustrazione ancora un po’, avanzando dove la strada diventa nuovamente sentiero, e poi si trasforma in passerella sopraelevata.
La passerella, fatta di legno, risuonava con ritmo cadenzato al mio passaggio; due corrimano la stringono lateralmente e delimitano lo spazio concesso all’uomo e quello lasciato alla Maremma con i suoi animali, e la sua vegetazione. Fortunatamente trovai dopo poco uno slargo dove fermarmi e fare inversione.
Mentre provai a tornare indietro mi accorsi che il sentiero di ritorno era già stato occupato da un vecchietto giovanile in bicicletta, così rimasi fermo ad aspettarlo sulla piazzola; quando mi raggiunse, nel sorpassarmi, mi fece cenno con la mano e poi aggiunse: «La bimba è stanca, e si sono fermate», io lo ringraziai e contraccambiai cordialmente il suo saluto.
Le ragazze, stanche per il caldo e per la pedalata, erano infatti ferme sotto l’ombra di un pino; mi aggregai a loro per una sosta e insieme facemmo merenda.
Ripartimmo alla volta di quella passerella che, secondo le nostre aspettative, ci avrebbe dovuto introdurre nell’interno più profondo della Maremma ma che, invece, trovava fine dopo un centinaio di metri con un capanno di avvistamento che faceva da capolinea.
Lì trovammo a presidiare l’ingresso una bicicletta d’altri tempi con un cestino frontale stracolmo di roba ben disposta, e un altro dietro altrettanto pieno e ordinato.
All’interno del capanno erano due le essenze che regnavano: il silenzio e la presenza di quel giovane anziano che poco prima avevo incontrato – Ersilio. (Nome di fantasia)
Già solamente la sua figura e il suo abbigliamento erano tutto un racconto, scrutava silenziosamente dalle feritoie del capanno risalendo con lo sguardo il fiume con un binocolo verso l’entroterra.
La direzione del suo sguardo si fermava sempre lì in mezzo al fiume, in corrispondenza di un tronco arrenatosi sulla riva di un piccolo isolotto. Anche noi incuriositi ci sforzavamo di guardare laggiù.
Dopo qualche minuto, il silenzio venne interrotto dalla sua voce che rivolta verso Maria chiedeva, in maniera gentile ma decisa: «Sai guardare con il binocolo? Vorresti vedere la Furia del fiume?»
Maria rimase per un attimo intimidita da quel suo modo di fare schietto e sicuro, poi farfugliò qualcosa e annuì.
Io continuavo ad osservare verso quella direzione ma non riuscivo a scorgere nulla di evidente.
Ersilio si alzò per sanificare il binocolo con un fazzoletto imbevuto di disinfettante che trovò nel cestino della sua bicicletta, ma nel mentre… sentii un brivido corrermi lungo la schiena, lo stesso brivido che – credo – provò il fiume: da quel tronco in lontananza si levò in volo un rapace di dimensioni tali da essere ben visibile anche ad occhio nudo. Era un falco pescatore.
Volteggiò due o tre volte intorno all’isolotto e poi, come se avesse percepito le nostre intenzioni, infastidito, se ne volò via.
Ersilio si dispiacque più che per l’accaduto, per non aver potuto tener fede alla parola data: non c’era più nulla di interessante da far vedere alla piccola, ma da raccontare aveva molto, e ce ne diede dimostrazione.
Oramai raggiunti i 76 anni, Ersilio, maremmano DOC, guida del parco in congedo, esausto della gente e infastidito particolarmente dagli adulti, ci fece capire con enfasi, più volte e in diversi modi che il parco avrebbe dovuto investire tutte le proprie energie sulla curiosità dei bambini.
Immaginiamo di trovarlo lì in quel capanno, a giorni alterni, a contemplare la bellezza della sua Maremma, nostalgico dei tempi andati e critico nei confronti della gestione di chi specula sulla natura, senza reinvestire su di essa.
Appassionato anche lui di fotografia, attrezzato con una Nikon D5600 ed uno zoom con lunghezza massima di 200mm, mi giustificò la scelta dicendomi che, per riconoscere e fotografare gli uccelli del fiume, gli risultava sufficiente quell’agile lunghezza focale; in sostanza, mi fece capire che focali superiori sarebbero risultate troppo pesanti e troppo goffe allo scopo e che di fatto lo avrebbero costretto a «inseguire», in senso fotografico, gli animali.
Molti sono stati gli argomenti trattati, molti i riferimenti storici, le descrizioni dettagliate di sporgenze rocciose del parco, documentate da fotografie ricavate direttamente dalla sua fotocamera – il Leone e la Dea, sono solo alcuni esempi… Poi i sentieri, la flora e la fauna, ci raccontò del lupo pescatore e criticò, in particolare, la volpe – Asdrubale – la cui unica colpa era quella di esser nata per chiedere ogni giorno l’elemosina nei pressi dell’area picnic di Alberese Marina.
Dalla sua descrizione, così dettagliata, mi ricordai subito di quell’animale e delle fotografie che gli scattai qualche anno prima proprio qui in questi luoghi.
Evidentemente nostalgico, Ersilio non voleva lasciarci andar via, e nemmeno noi, entusiasti dei suoi racconti, lo volevamo. Ma l’ora tarda per il pranzo incalzava, sia per noi che per lui.
Ci congedammo, riprendendo la strada asfaltata di ritorno.
Lo incrociammo un’altro paio di volte: la prima ci chiese, visto il gran caldo, se avessimo acqua a sufficienza, e ne avevamo. L’altro incontro fu più particolare: dopo averci superato di molto, trascorsa una ventina di minuti, tornò indietro a cercarci e si ripresentò con una bustina piena di sorprese per Maria, così si giustificò.
La bustina conteneva una serie di esuvie lasciate dalle cicala dopo la muta, a suo parere un pensiero carino da condividere che noi abbiamo apprezzato.
Consegnandoci il fagotto ci raccontò la vera storia della cicala.
La cicala vive come larva 6-7 anni sotto terra, anche fino a 17 se è di specie americana. Gli individui giovani, molto simili agli adulti, ma senza ali e con le due zampe anteriori pronunciatissime e adatte allo scavo, raggiunta la maturità, escono dalla terra, si arrampicano sul tronco dell’albero ospite e lì fanno la muta, lasciando così l’involucro ninfale, per poi raggiungere in volo il luogo dove siamo abituati a sentirle cantare.
Quel canto, che a noi può dar fastidio, è la serenata improvvisata che il maschio fa alla femmina; ebbene sì, è il maschio che sentiamo cantare a squarciagola, mentre la femmina lusingata emette solo dei piccoli suoni. La cicala dopo 24h dall’accoppiamento, depone le uova che, cadendo a terra, fanno iniziare un nuovo ciclo della specie. La cicala adulta, per sua natura, non vive più di un mese, mese e mezzo, così di fatto dopo il concerto estivo, non se la sente di raggiungere l’inverno.
Quella fu l’ultima volta che lo vedemmo; le nostre strade si separarono definitivamente, lui con la sua bicicletta verso la pineta e noi con le nostre in direzione della spiaggia.
Che strane esperienze del tutto casuali ci ha portato a fare il sentiero: il brivido della Furia del fiume, il romantico riscatto della cicala sulla formica, l’emozionante entusiasmo di Maria alle prese con la bicicletta in mezzo a tutta quella natura che, facendo da cornice, non poteva che amplificare la bellezza e la genuinità di quei sentimenti.
Proseguimmo per la nostra strada, trovando pace dal caldo feroce solo dopo un tuffo in quell’acqua limpida e salata.